Il ciliegio [Cover] di Angelo Branduardi (1977)

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Nella lista delle cover che voglio fare, per le ragioni che ho ampiamente spiegato in un altro articolo, ho depennato anche la canzone “Il ciliegio“, di Angelo Branduardi.

Ho conosciuto l’ipertricotico sul palco dell’Auditorium di St. Vincent, in Valle d’Aosta, nei primi anni 2000, in occasione dell’ennesimo festival sulle lingue minoritarie, o qualcosa del genere.

Abbiamo suonato sullo stesso palco, ma ho parlato più con il suo tastierista che con lui. Quest’ultimo sosteneva che i suoni campionati delle tastiere erano meglio delle librerie dedicate, per una astrusa teoria sui filtri tarati appositamente che consentono un’espressività e una dinamica rendendo lo strumento imitato più “suonabile”: non mi soffermo sulla replica che prenderebbe troppo spazio in questo articolo, basti sapere che per suonare realisticamente uno strumento campionato bisogna ascoltare bene la  tecnica esecutiva dello strumento reale, l’estensione e le articolazioni o, meglio ancora, saperlo suonare veramente, anche solo amatorialmente.

Personaggio abbastanza schivo e dalla “allure aristocratica”, Branduardi non ha mi ha impressionato per empatia, neanche tra colleghi, tuttavia questa canzone mi ha colpito nel momento magico della mia vita, l’adolescenza, periodo in cui si forma la personalità, direbbero gli psicologi, io invece parlo del momento topico per le prime espressioni della propria ESSENZA innata, venendo anche in aiuto la pulsione sessuale  che, quando veicolata nel mondo immaginale, creativo, da il meglio di se stessa e spezza il legame con la sua funzione riproduttiva.

E proprio di sessualità, in maniera poetica e garbata, parla questa canzone.

Trattasi di una rivisitazione della canzone di Joan BaezThe Cherry Tree Carol“, intrisa di evangelismo in cui si descrive un Giuseppe vecchio e decrepito e una bellissima Maria sedicenne, che rimane incinta ma non di lui, detto in estrema sintesi.

Branduardi, secondo la mia personalissima interpretazione, tutt’altro che attendibile, come la maggior parte delle opinioni, sposta l’asse focale su territori più umani e sulla nostalgia del vigore sessuale perduto dal protagonista del racconto al quale, nonostante la condizione sfavorevole, non resta che amareggiarsi per il tempo “proustianamente” perduto e dedicarsi alla statica contemplazione della bellezza femminile in fiore, quando “l’inverno viene già…“.

Belle ragazze ed inverni con tanti ormoni sulla neve sono fatti a me ben noti e sperimentati, a tempo debito. Questa canzone me li ricorda, suonandola li esorcizzo e ci metto una pietra sopra,  perché l’amore adolescenziale è sacro e può essere praticato solo tra coetanei, diversamente è un quadro dipinto male, con colori e odori che stonano, detto “fuori dai denti” e senza nessuna retorica moralistica.

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